Intervistiamo Federica Frambati, cacciatrice e testimone oculare di tutto ciò che non ha funzionato nella decinghializzazione a Parma.
D: Federica, sei una cacciatrice attiva nell’ATC PR8. Come state vivendo l’emergenza PSA sul territorio?
R: La stiamo vivendo male, con molta frustrazione. Sono tre anni che lanciamo l’allarme sulla diminuzione dei cinghiali e nessuno ci ha ascoltati. Oggi siamo in piena emergenza e, paradossalmente, chi dovrebbe essere valorizzato — i cacciatori — viene tenuto ai margini. Abbiamo speso soldi per adeguarci alle normative, frequentato corsi, rispettato piani di biosicurezza rigidissimi, eppure non ci fanno operare.
E il paradosso peggiore è che, pur facendo un servizio pubblico, siamo costretti a pagare l’ATC come se fossimo semplici fruitori, quando invece siamo noi a mandare avanti il sistema. In pratica, ci fanno pagare per lavorare.
D: Quali sono gli ostacoli più gravi che incontrate?
R: Ce ne sono troppi. Intanto, la Regione Emilia-Romagna non risponde neppure alle PEC. C’è un silenzio assordante. In più, il sistema è assurdo: io, che sono in zona 1, non posso andare in zona 2 a cacciare il cinghiale coi miei cani — però posso andarci per la lepre. Dove sta la logica?
La residenza venatoria non ci viene riconosciuta, quindi paghiamo l’iscrizione all’ATC senza ottenere reali diritti. E fino al 2023 abbiamo persino pagato di tasca nostra le fascette identificative per fare ciò che ci chiedevano loro. È un sistema che ci sfrutta.
D: E la burocrazia?
R: È folle. Ogni volta che ci autorizzano a uscire, dobbiamo indicare coordinate GPS rigidissime. Se troviamo un cinghiale a pochi metri fuori da quelle coordinate, non possiamo intervenire. Siamo bloccati dalla carta, anche quando il virus avanza sul campo.
E se riusciamo a operare, ci troviamo davanti a una mole infinita di documentazione da compilare. Nessuno snellisce le procedure, nessuno ci aiuta concretamente.
D: E le istituzioni? Collaborano con voi?
R: Più che collaborazione, direi che ci scaricano le responsabilità. La Polizia provinciale esce di notte con visori termici, strumenti pagati da noi, e spara come e dove vuole. Poi però, il lavoro sporco tocca a noi: trasporto, eviscerazione, campionamento, tutto fatto dai cacciatori.
Non c’è coordinamento reale, e i tecnici veterinari e il personale provinciale sembrano impreparati a gestire davvero questa emergenza.
In più, è stata perfino assunta una ditta privata per effettuare i depopolamenti, pagata con soldi pubblici — mentre noi, che siamo già formati e operativi, veniamo lasciati ai margini. È un insulto al nostro impegno.
D: E le associazioni venatorie, vi hanno supportati?
R: Per niente. Le associazioni sono rimaste in silenzio, assenti. Ancora oggi non ci danno risposte chiare su un punto fondamentale: se l’assicurazione copra o meno le attività dei piani di depopolamento, visto che non vengono considerate “azioni di caccia” a tutti gli effetti.
Questo significa che potremmo trovarci scoperti legalmente, mentre svolgiamo un compito che ci è stato imposto. E nessuno si prende la responsabilità di garantirci la tutela necessaria.
D: E i parchi, le riserve?
R: Lì non possiamo entrare. Ma sono proprio parchi e riserve a essere i veri bacini di proliferazione. È come tentare di svuotare il mare col secchio: fuori spari, dentro crescono. Se non si affronta il problema alla radice, anche con operazioni mirate in queste aree, non andremo mai da nessuna parte.
D: Cosa chiedi alla Regione, in sintesi?
R: Di smetterla con la burocrazia cieca. Di ascoltarci. Di riconoscere il ruolo insostituibile dei cacciatori, che oggi sono gli unici sul campo davvero in grado di intervenire con efficacia. Non siamo criminali né bracconieri, ma cittadini formati, pronti e attivi.
Siamo noi che portiamo sulle spalle il peso di questa emergenza, mentre le istituzioni giocano a scaricabarile. Ma così, ci tenete legati mentre la PSA si diffonde. E quando tutto questo finirà, ricordatevi chi è stato chiamato a pulire il disastro.
